SANT’EGIDIO TRA FEDE, STORIA E FOLCLORE

Con la processione del 31 agosto (che si conclude con la benedizione dei gonfaloni delle sette contrade) e con la S. Messa del primo settembre, concelebrata in cattedrale e presieduta dal Vescovo della diocesi, iniziano le celebrazioni in onore di Sant’Egidio, patrono della città di Orte (fig. 54), celebrazioni che continueranno fino alla II° domenica di settembre, con rievocazioni storiche, gare sportive, momenti culturali e folkloristici.

Continua così e si rinnova, una tradizione ortana che ha radici molto profonde, e trova la sua origine nel medio evo.

Scrive il Leoncini, che per Sant’Egidio si celebra “la più solenne festività che si faccia in Orte” e questo “per essere Egli avvocato, cioè protettore e difensore davanti a Dio di detta comunità”.

In Orte la festa di Sant’Egidio si celebrava assai prima che il Santo venisse proclamato patrono della città.

E la devozione per Lui doveva essere davvero grande e viva, se Bonifacio IX nel 1396 aveva concesso a coloro che Lo visitavano il giorno della festa e levavano verso di Lui le mani imploranti, la stessa indulgenza plenaria che si poteva lucrare ad Assisi nella chiesa della Porziuncola.

L’indulgenza fu in vigore fino alla riforma del concilio di Trento, cioè fino al 1536. Riferisce il Leoncini, per averlo appreso dagli anziani, che l’afflusso della gente davanti alla statua del Santo, era, in quel giorno, continuo, e andava da un vespro all’altro, e la chiesa rimaneva aperta “fino a 3 ore di notte”, cioè fino alle 21.00, anche per le donne, fatto questo, in quei tempi, piuttosto insolito.

La processione con cui la festa si apriva era considerata atto pubblico, cui la comunità partecipava in forma ufficiale, con la sua magistratura al completo: Potestà, Priori, Consiglio Generale e tutte le componenti sociali. Il capitolo 72 del libro quarto degli statuti, ne fissava le norme.

Essa doveva svolgersi di giorno e non di notte, alla vigilia della festa nel tempo in cui gli ufficiali del Potestà avrebbero provveduto a radunare le 16 corporazioni cittadine, i componenti delle quali, ognuna con il proprio rettore o console, doveva presentarsi all’ufficiale delegato del Potestà con in mano una candela accesa, disporsi e sfilare due a due davanti all’immagine del Santo secondo un ordine di precedenza ben preciso.

La festa era, inoltre, solennizzata da una fiera che durava otto giorni, due prima e cinque dopo il primo settembre, nel corso della quale i mercanti godevano l’esenzione dalle “gabelle”. fino al 1513, anno in cui crollò il ponte sul Tevere, si bandiva fino a Perugia, Foligno, Terni, Norcia e molte altre città dell’Italia settentrionale. Era chiamata “Fiera dei Campanelli”, perché, ci dice sempre il Leoncini, quelli che vi partecipavano usavano comprare e portar via, per ricordo, 132 dei campanelli di coccio, onde sorse anche il nome di Sant’Egidio dei campanelli

La fiera era un avvenimento talmente importante per Orte che impegnava subito appena eletto il Potestà e il Consiglio Generale a provvedere al suo svolgimento entro due mesi dalla loro elezione.

Processione del Venerdì Santo – Statua Sant’Egidio
Statua Sant’Egidio
Sant’Egidio – Foto del 1903

Il primo ottobre di ogni anno poi dovevano essere sorteggiati due cittadini e
un notaio con l’incarico di soprintendere alla sua organizzazione. La fiera era distinta in due sezioni: la fiera del bestiame e la fiera delle merci. Gli statuti stabilivano che la fiera del bestiame doveva svolgersi al di là del ponte del Tevere, sulla strada per Amelia, in zona di volta in volta indicata dai Priori, e si concludeva con una corsa di cavalli che partiva da Petignano e arrivava sulla Piazza di Santa Maria.

La fiera commerciale, invece, si svolgeva entro la città, “ora per una strada, ora per un’altra” dice il Leoncini, “et ogni persona era obbligata dare la sua bottega gratis a li mercanti, et io l’ho vista bellissima ancora a suo tempo”.

Dopo il 1602, la festa del patrono fu rallegrata anche dalla ripresa dei “ludi tiberini”, cioè dalla corsa di barche, sul Tevere, di origine anch’essa assai antica.

Il Leoncini riporta in proposito, nei suoi testi, una splendida pagina in latino “che si leggeva” egli dice, “ne li frammenti”.

Da un’affrettata lettura di essi, si ricava l’impressione di una comunità che considerava le attività sportive come un mezzo particolarmente efficace per preparare la gioventù all’emulazione, al coraggio, all’armonico sviluppo fisico, spirituale e sociale.

Per questo non si tralasciava di organizzare gare in cui la qualità dei singoli o di gruppi avevano modo di manifestarsi davanti a tutti i cittadini.

In questa luce, i ludi tiberini si collocavano, sulla scia del torneo dell’anello d’argento obbligatorio per statuto, accanto alle corse di cavalli.

E voleva essere un modo di dir grazie al Santo invocato, anche perché raffrenasse le inondanti acque del Tevere, da parte di tanti cittadini che con il lavoro dei campi provvedevano al cibo per tutti e con il lavoro delle barche facevano buoni guadagni.

Gli abitanti del borgo chiamavano queste corse di barche anche col nome di “le calate”, perché la folla degli ortani scendeva sulle rive del fiume lungo il percorso della gara. Ciascuna barca, ornata di fiori e verdura, era condotta da quattro giovani. Il premio consisteva in una coppa, in un paio di guanti o in un panno di seta.

La custodia (1475 – 1480 ca.) rappresenta la prima opera conosciuta realizzata per Orte dal Pittore Cola – Museo Arte Sacra

Dal testo del Leoncini è possibile arguire che nelle gare erano impegnate le contrade, giacché al passaggio sotto le arcate dell’antico ponte sul parapetto o lungo le sponde, uomini, donne e ragazzi incitavano a gran voce e spesso con trombe e tamburi “quisque suos”, cioè, ognuno i propri colori, mentre i rematori si sfottevano a vicenda e si schizzavano acqua in faccia.

“Facevano cornice alla corsa delle barche”, dice il Leoncini, “suoni e musiche et donne, et si ballava poi sotto ad alma, amena et opaca ombra.

E quivi si facevano buoni pasti et si aspergevano d’acqua et così si stava alegramente”.

Lo storico ortano si rammaricava che queste calate, verso la fine del secolo fossero scomparse, e attribuiva la colpa alla “insterilità degli animi et anco 133 alla malattia degli uomini”, cioè a indolenza e a fiacchezza morale.

Salutò perciò con soddisfazione l’iniziativa della compagnia di San Rocco, cioè della corporazione dei muratori, che nel 1602 aveva ripreso le costumanze con la festa di Sant’Egidio “e con molta vaghezza della città”.

Tomba di Sant’Egidio custodita presso la sezione di San Francesco del Museo Diffuso delle Confraternite – Sec. XVI / XVII

E in quell’anno presero parte alla gara dieci barche. L’altare di Sant’Egidio si trovava nella chiesa di Santa croce. Quello che si trova ora nella forma attuale (1731), è stato donato dall’aromatario Francesco Veramici che, grazie ai buoni guadagni ricavati dalla vendita della cera alla Confraternita di Santa Croce sentì il bisogno di ringraziare la stessa. Il Veramici sostituì quello costruito nel 1594 con spese di molte centinaia di scudi.

Fu allora, che gli sportelli della nicchia, entro la quale era venerata la statua del Santo, furono tolti e collocati in un angolo della sacrestia di Santa Croce, e sarebbero andati perduti se un antiquario non ci avesse messo gli occhi sopra e non avesse insistito troppo per comprarli, e portarli via.

Oggi, quegli sportelli costituiscono nel museo diocesano uno dei documenti più preziosi dell’arte sacra locale. Il carattere popolaresco delle pitture, con la natura rappresentata in forme che si direbbero surrealiste, risente chiaramente degli influssi del primo rinascimento.

La vita di Sant’Egidio vi è rappresentata in diverse fasi, dalla fanciullezza, alla morte, in dodici piccole storie, illustrata con iscrizioni in lingua volgare.

L’impianto segue la narrazione della prima vita del Santo scritta oltre mille anni fa, volta a ricordare più che i dati precisi di cronologia, i fatti prodigiosi operati da Dio per Sua intercessione. Sant’Egidio nacque in Grecia, ad Atene nel VI secolo da Teodoro e Pelagia, di nobilissima famiglia.

Le prime due tavole rappresentano il dispetto dei diavoli che rapiscono dalla culla il bambino destinato a grandi cose, e lo trasportano, e lo abbandonano in un bosco dove una cerva provvede ad allattarlo. Riportato a casa fu educato secondo le esigenze del suo rango, alle arti liberali, e divenne ben presto uomo coltissimo, ottimo oratore ed eccellente poeta. Fu esperto nelle materie scientifiche, e si attribuiscono a Lui opere di medicina in latino “de pulsis”, sui battiti del cuore, in versi, e “de venis”, uno studio sulle vene del corpo umano. Ma egli si distinse particolarmente nello studio delle Sacre Scritture, cui lo spingeva uno spiccato spirito di pietà e il desiderio di conoscere la volontà di Dio.

Rimasto solo dopo la morte dei genitori, seguì l’invito del Vangelo, vendette il patrimonio ereditato e distribuì il ricavato ai poveri.


Iddio lo glorificò concedendogli il dono dei miracoli. Un giorno incontrò un malato che gli chiese l’elemosina. Si tolse il mantello, e con esso ricoprì il povero, che istantaneamente guarì.

Un’altra volta liberò un indemoniato. Poiché la fama di queste opere aveva reso celebre il Suo nome, per fuggire il pericolo della vana gloria, decise di allontanarsi dalla patria. Si mise in viaggio su una nave e approdò a Marsiglia, in Provenza dove visse prima con S. Cesàréo, Vescovo di Arles e poi, nella solitudine, accanto all’eremita Veredemio. Ma poiché la fama dei miracoli lo seguiva 134 anche lì, dove aveva guarito una donna per tre anni affetta dalla lebbra, si ritirò ancor più all’interno del bosco, in una caverna difficilmente accessibile, dove viveva nella contemplazione di Dio, pregando e meditando, cibandosi di erbe selvatiche e del latte di una cerva che prodigiosamente ogni mattina si avvicinava a Lui per offrirgli il dolce alimento.

Il Signore volle però che il Suo servo, pur nel folto del bosco, venisse glorificato e la Sua santità risplendesse di fronte agli occhi degli uomini. Alcuni arceri della caccia reale inseguivano la cerva, la quale cercò protezione ai piedi del Santo. I cani si arrestarono, ma un cacciatore scagliò la freccia che andò a colpire Sant’Egidio in un braccio.

Non si lamentò né volle essere da loro soccorso, disse soltanto che voleva soffrire il dolore della ferita per partecipare in qualche modo al dolore che nella Passione, le ferite avevano procurato a Cristo.

Il fatto fu riferito al re visigoto Wamba che volle conoscerlo di persona, e l’incontro non fu senza conseguenze. Sant’Egidio svelò al re un suo peccato occulto e ottenne da Dio la forza di confessarlo. Per questo il re lo pregò di permettergli di dimostrare a Lui la propria riconoscenza, e il Santo gli chiese che nel luogo della spelonca venisse costruito un monastero, per accogliere quanti desideravano seguirlo nella vita di preghiera.

Il monastero in poco tempo fu pronto e Sant’Egidio fu ordinato sacerdote e i monaci accorsi vollero che divenisse loro Abate, adottando la regola benedettina. Negli ultimi anni di vita, dopo aver ricostruito due volte il monastero distrutto dalle incursioni dei saraceni, volle venire a Roma a visitare le tombe degli Apostoli. Morì il primo settembre alla fine del secolo VI.

Ben presto cominciarono i pellegrinaggi al Suo sepolcro e altari e chiese sorsero in Francia e in Italia in Suo nome. In Italia si contano oltre cinquanta parrocchie a Lui intitolate. Fu venerato come uno dei quattordici Santi ausiliatori, di quelli cioè che vengono invocati in particolari difficili circostanze per determinati mali e per ottenere e conservare la pace.

Sant’Egidio è invocato per fare una buona confessione e per la guarigione dalla febbre delirante, dal panico, dalla follia e dal malcaduto. Le Sue reliquie furono richieste da molte parti, ma la principale porzione dei Suoi resti mortali è conservata nella chiesa abbaziale della cittadina che porta il suo nome, Saint Gilles, nella Camargue, altre reliquie sono nella chiesa di Saint Sernin a Tolosa (fig. 55).

I Suoi prodigi sono illustrati tra l’altro in due vetrate e in una scultura del portale della cattedrale di Chartres, nel sepolcro di Carlo Magno a Aachen (Aix le Chappelle), e in alcuni quadri diffusi in chiese e musei. Il polittico, conservato nel museo diocesano di Orte è uno dei più importanti.

In Italia il culto di Sant’Egidio è molto diffuso; per rimanere nel Lazio, a Roma vi sono due chiese a Lui consacrate e un’altra a Viterbo. Le città di Palombara Sabina, La Tolfa, Caprarola e Orte, lo hanno come protettore principale. Ad Orte la devozione del Santo viene introdotta, secondo un’antica tradizione, al tempo di Papa Urbano IV, forse dalle truppe 135 francesi di Carlo D’Angiò che si recavano a Napoli a combattere contro re Manfredi. Alessandro Camilli, altro storico ortano, attribuisce invece al principe Giovanni d’Angiò la costruzione del primo altare intitolato al Santo.

Questo si trovava nella chiesa della confraternita di Santa Croce che adottò Sant’Egidio come proprio protettore nel 1327, ne diffuse il culto e fece dipingere la storia della Sua vita in dodici riquadri nelle quattro tavole di cui parlavamo.

Se negli statuti della città Sant’Egidio appare solamente nel corso del secolo XVI la devozione del popolo per Lui era antica e profonda.

La statua del Santo, custodita nell’altare eretto in Suo onore fino al 1952 (fig. 56), aveva questa singolare costumanza, che rimaneva abitualmente occultata alla venerazione dei fedeli e si scopriva su richiesta di delegazioni di contadini quando si voleva implorare la Sua intercessione per ottenere al tempo opportuno, la pioggia o i raggi del sole. Nel novembre del 2012, nell’ambito della giornata del confratello, il Dr. Lorenzo Pacifici dell’Università di Perugia ha presentato i suoi studi sulla statua di Sant’Egidio di Orte, e le sorprese non sono state poche.

La brillante relazione attribuisce a Saturnino Gatti, artista polivalente del ‘400, la realizzazione della statua, conferendo ad essa notevoli qualità artistiche e ponendola come uno dei capolavori del pittore-scultore abruzzese. E che essa sia opera quattrocentesca ce lo conferma indirettamente il dipinto su tavola, di autore ignoto, conservato nel museo delle confraternite.

La figura di Sant’Egidio è riprodotta tale e quale alla statua ed è attribuita al secolo XVII. Nel retro sono indicate tre date (1836 – 1881 e 1891) e tre nomi che indicano i restauri compiuti. Quello che invece pochi sanno è che durante i lavori di restauro eseguiti da Lorenzo Duranti viene alla luce che il retro della statua è parzialmente vuoto, come se fosse stata scavata nella parte centrale una specie di nicchia. Prima della definitiva chiusura è stato posto un documento che ricorda l’opera del restauro, l’elenco dei nomi del consiglio direttivo delle Confraternite, il nome del Vescovo, del Sindaco di Orte e di alcuni collaboratori. Il restauro, che ha visto forti interventi anche nella macchina processionale, è iniziato il 3 ottobre 2008 ed è stato concluso il 30 agosto 2009. Ma quando Sant’Egidio fu proclamato patrono principale di Orte? Per dare una risposta dobbiamo tenere presente una premessa. Studi recenti (vedi in proposito l’opera di Paola Santucci – “La pittura del Quattrocento” – ed. UTET, Torino, 1992) hanno dimostrato che per una più appropriata lettura dei fenomeni artistici del primo rinascimento non basta tener conto delle singole opere prodotte dai grandi autori nelle grandi città; anche quelle che personalità di minor rilievo produssero nei piccoli centri, configurati allora come città – stato, mettono in luce, con un loro specifico linguaggio, un comune stato d’animo che, in particolari situazioni, poteva essere di tristezza, di trepidazione o di gioia


Insomma, la tesi di un rinascimento univoco, generato ovunque 136 da un’unica sorgente creativa e da una medesima luce culturale e spirituale, non sembra più sufficiente a leggere, e a “intus legere”, un’opera d’arte. Per
poterla comprendere in tutti i suoi contenuti e in tutti i suoi aspetti, occorre perciò collocarla nell’ambito della comunità che l’ha promossa, della quale rispecchia la vita spirituale, sociale e politica in un particolare momento della sua storia.

Insomma “tante furono le città, tante le loro distinte produzioni culturali”. Alla luce di questa premessa, alcune indicazioni tratte dal Leoncini e dalle “Riformanze” del sec. XV, e da una rilettura di alcune tavole conservate nel nostro museo diocesano, ci offrono la chiave per individuare, in qualche modo, la data che noi stiamo ricercando.

Racconta il Leoncini (vol. II p. II, f. 348) che un suo zio materno, Marco Ponte, il quale era stato per oltre trenta anni cancelliere della comunità, e aveva avuto modo “di leggere più volte tutte le carte” in essa conservate, gli aveva detto un giorno che la fiera dei campanelli, istituita originariamente per solennizzare l’anniversario della consacrazione dell’antica cattedrale, era stata trasferita alla festa di Sant’Egidio, “quando lo aveva preso per advocato”.

A quel tempo, ricorda lo storico ortano con rammarico, egli non pensava, di scrivere le vicende della città e quindi non si era curato di chiedergli quale era stato l’anno preciso. Da una copia in suo possesso degli antichi statuti “tradutti da ser Dinadoro Astorelli da Todi nell’anno 1200 in circa” e sulla base delle riformanze comunali, egli ricostruisce però l’elenco documentato di tutti i Santi protettori invocati via via dalla città di Orte, in momenti di eccezionale gravità. Nel cap. 90 di quel primo statuto, egli trovò che fin dal 1136, accanto alla Vergine Maria Assunta in cielo, gli ortani avevano scelto come protettori i Santi Ambrogio e Pancrazio, ai quali nell’antica cattedrale avevano dedicato un altare.


Quel patrocinio era durato oltre due secoli e mezzo. Il 7 luglio 1450, mentre in città e nei centri confinava una terribile peste, su proposta di Angelo di Roberto (uno dei protagonisti della storia civile ortana di quel tempo) il consiglio comunale ritenne opportuno invocare la particolare protezione di Sant’Antonio da Padova “per li molti et infiniti miracoli che esso faceva”, e dispose “di ordinare un cero in onore del Santo, come è consuetudine, da accendere nelle chiese della città” (Riformanze del Comune di Orte 1449 – 1458 Ed. Ente Ottava Medievale di Orte pag. 103).

Sette anni più tardi, a seguito di una tristezza giornata di passione politica e di sangue fraterno, che l’orgoglio di parte aveva, però, subito trasformato in una giornata di amaro trionfo, fu presa una nuova decisione.

Il 5 giugno 1457, in una località che né le Riformanze né il Leoncini precisano, le milizie cittadine avevano messo in fuga i fuoriusciti rinforzati dalle bande di Everso dell’Anguillara.

Nella seduta del 3 luglio, quando la tensione interna si era un pò allentata ma l’orgoglio di parte si era ancor più accentuato, la comunità, per tener fede al principio che “tutti quelli che hanno ricevuto benefici da Dio, hanno il dovere di ringraziarLo” propose che si facesse una grandiosa 137 processione di ringraziamento, “si desse da mangiare a tutti i cittadini” e si proclamasse protettore della città San Vittorino, per intercessione del quale, proprio nel giorno in cui si celebrava la festa, gli ortani avevano ottenuto la vittoria.

Purtroppo, però, nonostante la processione, i banchetti e la proclamazione del nuovo patrono, dal nome certamente augurale ma anche piuttosto provocatorio, quella vittoria non era stata risolutiva, e le tribolazioni e i contrasti interni, bloccati per un momento, ripresero a farsi sentire più aspri e dolorosi che mai.

Dopo il 1470 non ci fu più pace, né all’interno della città, né con le comunità confinanti, ree di aver dato ricetto a gruppi di fuoriusciti.


Fu proprio in queste tristi circostanze che la preghiera dei cittadini più umili, di quelli soprattutto raccolti nelle Confraternite, si levò a Dio, per l’intercessione della Madonna e di Sant’Egidio, il Santo “ausiliatore” al quale gli ortani si erano sempre rivolti con fiducia.

Tre singolari documenti, che fanno parte del patrimonio storico e artistico della comunità ortana, gelosamente conservati nel museo diocesano, ce ne danno conferma: una “Madonna con bambino e devoto” di autore anonimo, le “Tavole di Sant’Egidio”, che Luisa Mortari attribuisce a un pittore della scuola di Lorenzo da Viterbo e Italo Faldi al così detto maestro di Chia, e, infine, la “Madonna dei Raccomandati”, già attribuita, pur con qualche riserva, da Federico Zevi a Francesco D’Avanzarano, ricondotta oggi da Fabiano Buchicchio, sulla scorta di inoppugnabili documenti notarili finora inediti, al pittore Cola, nativo di Roma, ma fin dal 1475 “abitatore di Orte” e quindi indicato dal notaio come “Mastro Cola pittore da Orte e cittadino ortano”.

Il primo reca significativamente, in bella evidenza, la data del 1484; il secondo è stato assegnato a una data che non va oltre il 1490: il terzo iniziato nel 1500 fu terminato, dopo la morte di Cola, per incarico del figlio Egidio, dal pittore Giovanni Antonio da Roma nel 1501. La “Madonna con bambino e devoto” (fig. 57) è rappresentata in un atteggiamento non certo usuale nella pittura quattrocentesca, ben diversa da altre immagini dello stesso periodo.

Ella non mostra, ma stringe al seno, quasi a volerlo difendere, il bambino che a sua volta abbraccia la madre e le accarezza il volto, quasi a volerla confortare, e ambedue fissano intenti il visitatore, con gli occhi velati da profonda tristezza.

Il devoto, collocato in un angolo, contempla i due con il volto tirato e le mani giunte. Forse la data segnata in basso con tanta evidenza ci permette di comprendere la ragione della mestizia che pervade le tre figure.


Negli ultimi mesi del 1484, dopo una breve pausa di quasi tranquillità, erano riprese le risse, non solo all’interno della città ma anche con i paesi confinanti, ognuno schierato chi per l’una chi per l’altra parte delle due potenti famiglie Orsini e Colonna, in lotta perpetua tra di loro. E proprio nel 1484, nella macchia della Madonna, così chiamata perché apparteneva alla Confraternita della Madonna dei Raccomandati, in contrada Baucca, dai Gallesani, cui si erano uniti alcuni fuoriusciti al servizio degli Orsini, erano stati ammazzati otto
giovani 138 ortani. Quello che era stato versato era, dunque, sangue fraterno, e noi siamo convinti, e crediamo di non essere lontani dal vero, che quella “Madonna col volto triste” sia stata commessa all’anonimo pittore dal padre di qualcuno di quegli otto giovani, quasi a implorare il dono della pace della Madonna e dal bambino che, appunto, non senza un significato, rivolgono gli occhi mesti al visitatore, quasi a invitarlo a farsi anche lui promotore di pace.

Da quell’anno, però, le tribolazioni interne e le incursioni esterne, si erano fatte ogni giorno più frequenti e spietate, e toccarono il culmine della ferocia il 13 febbraio 1489, quando sulle strade di Orte si contarono oltre cinquanta morti e un numero imprecisato di feriti. Ora, se accogliamo le tesi del Faldi che le tavole di Sant’Egidio non vanno collocate oltre l’ottavo decennio del secolo, crediamo di non essere lontani dal vero se riteniamo che esse siano state commesse al Maestro di Chia nel momento più carico di dolore che la comunità cittadina abbia mai esperimentato. I confratelli rappresentati nell’ultimo riquadro di destra, ginocchioni, in atteggiamento devoto e implorante (fig. 8), attendono la grazia della pace, con i flagelli della penitenza tra le mani giunte, per l’intercessione della Vergine Annunziata e di Sant’Egidio, invocato nella sua particolare qualità di Santo “ausiliatore”, perché venga in aiuto della comunità nel momento più tragico della sua vita cittadina.

Dopo quella terribile esplosione di odio e di morte, un senso di stanchezza e un bisogno di pace cominciò a diffondersi nell’animo dei cittadini più provati e pensosi. Certo, i rancori non si spensero all’improvviso; nel decennio che seguì ci furono ancora giornate di dolore, ma intanto, poco a poco, sull’orgoglio e le ripicche cominciarono a prevalere le ragioni della pace. E quanto più s’avvicinava l’inizio del nuovo secolo tanto più cresceva il bisogno di una convivenza più umana e fraterna, giacché ognuno voleva approfittare dell’anno Santo per ridare alla vita un nuovo significato. Ad assecondare questa opera di rappacificazione generale, ebbe gran parte Alessandro VI, un Papa per altri aspetti non certo commendevole. Nell’ottobre del 1498 inviò ad Orte come suo commissario il Vescovo di Vasto, con la facoltà di riallacciare i rapporti di pace con le diverse comunità. Questi cominciò dapprima con gli amerini, con i quali i rancori erano più radicati e, dopo qualche iniziale difficoltà, riuscì ad avviare le cose sulla strada giusta, con una iniziativa geniale: fece eleggere come delegati per le trattative “4 cittadini con altri parenti di alcuni ortani tenuti prigionieri ad Amelia” e questi riuscirono a sbloccare la situazione.

Il 9 giugno fu conclusa la pace; il 25 giugno la comunità restituì i beni ai fuoriusciti e gli amerini rimandarono a casa i prigionieri. Altre trattative avviate con Viterbo, Vitorchiano e Vignanello, si conclusero nel febbraio del 1499. “Restava alla Comunità et Ortani”, conclude il Leoncini, “fare le paci tra essi et i fuoriusciti coi quali si trattò e si trattava tuttavia, et perché si approssimava l’anno Santo del 1500 la comunità voleva essa 139 pure purificarsi” (vol.I – p.I f.563). In questo clima di riconciliazione e di rinnovata fiducia anche le opere della pace, e da allora, fatta eccezione per la giornata del 6 luglio 1902, la città non conobbe più al suo interno discordie sanguinose. Fu allora che la Confraternita dei Raccomandati affidò a Mastro Cola l’incarico di dipingere la tavola della Madonna, sotto il cui manto, tenuto aperto dalle sue braccia accoglienti, trovano rifugio e sicurezza tutte le categorie sociali, con il Papa e il Vescovo, cittadini e cittadine che con il volto sereno e l’animo disteso tendono lo sguardo verso di Lei.

Fu certamente questo il tempo in cui anche la devozione a Sant’Egidio toccò il momento di maggiore intensità, e la città sentì il dovere di proclamarlo suo patrono, affidando a Lui la conservazione della pace, e la perpetua protezione della città e della sua campagna. Il Leoncini non dice la data in cui questa scelta avvenne, ma nelle sue carte c’è una indicazione che non lascia alcun dubbio. Nel vol. III della sua Fabrica Ortana al foglio 262, dopo aver riassunto tutta la serie delle paci realizzate nel 1499, annota alla fine: “La comunità dona una torcia di 4 libre alla festività di Sant’Egidio. Cancelliere ser Io. Battista de Monte Santo”. Poiché nel libro delle “Riformanze” del 1449 – 57 la stessa formula viene usata quando furono proclamati patroni Sant’Antonio da Padova e San Vittorino, noi abbiamo ragione di credere che fu proprio il 1501 l’anno in cui S. Egidio fu proclamato per sempre patrono di Orte, e nel cap. 72 degli Statuti, pur conservando la titolazione originaria, fu aggiunta la disposizione che la processione di Sant’Egidio si doveva svolgere nel medesimo ordine e modo di quella dell’Assunta. Fin qui la ricerca del Gioacchini, secondo Armando Fiabane invece Sant’Egidio è stato invece proclamato patrono di Orte nel 1411.

Da cosa deriva questa certezza? Fiabane si è preso il gusto di consultare oltre l’archivio delle Confraternite e della Curia anche quello Comunale, cosa questa che il Gioacchini non poté fare poiché all’epoca l’archivio civico era conservato disordinatamente. Come si è già più volte osservato in queste righe l’attività civile dei secoli passati era spesso associata alle cerimonie religiose, magistrati e alte cariche pubbliche avevano posti di rilevo in processioni e celebrazioni e tali disposizioni erano regolate anche negli statuti. Non sorprende il fatto che nei documenti conservati nella sede comunale appaiano ordinamenti per onorare il culto dei Santi. Il Fiabane fa notare che il dono di una torcia di 4 libre al Santo Patrono non era in uso solo al momento della sua proclamazione ad avvocato della città, ma ogni anno. Ciò si evince nella nota delle spese dei Riparti Camerali del Consiglio di Credenza. E appunto in uno dei questi, precisamente quello risalente al 1460 troviamo il dono a Sant’Egidio della torcia di 4 libre “pro uno cereo…dato ecclesiae S. Egidij in eius festivitati 4 librarum bo. 28”.

Quando allora fu proclamato patrono Sant’Egidio se già nel 1460 lo si venerava come tale? A fornire questa risposta, scrive sempre Fiabane, ci soccorre una carta sciolta, cioè non catalogata, ritrovata nell’archivio della Curia. 140 Trattasi di una lettera datata 1810 scritta dal “Maire” (si era in epoca napoleonica e i sindaci di allora venivano indicati con il nome di “Maire”, rimasto, tra l’altro, ancora attuale in Francia) del Comune di Orte Ormera al conte Nicola Alberti nella quale si legge “Per provvedere in tempo utile a solennizzare con pompa la festa di Sant’Egidio, protettore di questa Nostra Città, per l’anno 1811 in cui cade il centesimo, etc…”.


La lettera è importante perché se nel 1811 cadeva il centesimo della festa e nel 1460 Sant’Egidio era Patrono di Orte l’anno non può essere che il 1411, non cento anni prima poiché fu affidato il culto di Sant’Egidio alla Confraternita di Santa Croce nel 1327. Ricostruendo il tutto con le date a nostra disposizione concludiamo che: se nel 1450 la comunità di Orte (pag. 136) aveva invocato la protezione di Sant’Antonio Abate, non specificando però se fu fatto Patrono, è invece documentato che nel 1457 si fece San Vittorino.

Dando per scontata l’invocazione di protezione a Sant’Antonio senza che questi sia stato eletto Patrono, la nomina di San Vittorino, come dice lo stesso Gioacchini (pag. 137) fu provocatoria e possiamo immaginare che il suo fu un breve periodo di patronato. Seguendo questa intuizione si collegano le ricostruzioni del Gioacchini e di Fiabane.

Ha probabilmente ragione quest’ultimo ad indicare il 1411 come data certa dell’elezione di Sant’Egidio a Patrono di Orte, ma ha ragione anche il Gioacchini quando dice che la sua, a questo punto, “rielezione”, sia del 1501.

La festa di Sant’Egidio, ad Orte, cominciava alle ore 11 del 31 agosto, quando, accompagnata dal capitolo e dalla folla dei devoti, la statua veniva esposta fino al mattino del 2 settembre, giorno in cui il Vescovo amministrava la Cresima ai giovani fanciulli ortani.


Per un’altra singolare costumanza, forse nella convinzione di rendere più misterioso e solenne il culto, il Santo veniva portato in processione per le vie di Orte, solo ogni cinque anni. Nel 1952 il Vescovo Massimiliani ordinò che il Santo venisse trasferito nella chiesa cattedrale, su un altare proveniente dall’antica chiesa della Trinità, che rimanesse esposto continuamente alla venerazione dei fedeli e che la processione per le vie della città si facesse ogni anno (fig. 58).

Queste, le linee essenziali della presenza di Sant’Egidio nella vita e nella storia della comunità di Orte. Gli ortani del nostro tempo hanno il dovere di conservare questa presenza, esprimendo la riconoscenza con manifestazioni conformi alla mentalità e alla spiritualità del nostro tempo, così come fecero gli ortani di una volta.

Si tratta in fondo di un richiamo a vivere sulle linee delle nostre tradizioni, che non sono già fuga o rifugio nel passato, ma strada per il futuro, cioè espressione di una cultura, di un modo di essere della comunità che nel corso dei secoli si è continuamente rinnovata, senza però mai abbandonare quei tratti essenziali che costituiscono i caratteri fondamentali della personalità degli ortani.

141 Al fondo di tutto sta l’insegnamento che Sant’Egidio continua a darci, presentandosi ancora oggi come modello di vita. Dice un’antifona che si cantava nei vespri “Il Signore affidò a questo Santo la missione di rendere a Lui testimonianza con la vita: con tutto il cuore Egli lodò il Signore e amò il Suo Creatore”. Quella di Sant’Egidio è stata davvero una testimonianza che è ancora attuale, per noi che viviamo in tempi in cui sembra che l’uomo valga solo per quello che possiede.

Con il suo distacco dalla ricchezza Egli ci ha insegnato che l’uomo vale per quello che è e non per quello che ha. Il Suo vivere in solitudine ci insegna che in nessun momento l’uomo può separarsi da se stesso o dimenticare se stesso, e che può ritrovare veramente se stesso se non vive in una distrazione che lo stordisce e gli fa dimenticare i doveri della vita nei confronti di se stesso, della famiglia e della società. Il mondo attuale è impegnato in una lotta senza sosta tra il bene e il male, e questa lotta si manifesta anche nel cuore dell’uomo.

Sant’Egidio con la Sua testimonianza ci insegna che in questo campo non bisogna avere dubbi o incertezze, e ci aiuta ad essere sicuri in questa scelta.


* * “La Fiaccola” era un giornalino locale, diffuso ad Orte nel 1945 e 1946, redatto da quella parte di mondo cattolico che rifletteva, commentava e criticava gli eventi cittadini e nazionali di quel periodo. Leggendo quelle pagine oggi si sorride difronte agli scritti genuini e, forse, un po’ ingenui, ma non si può non osservare che anche in quei difficili anni della ricostruzione dell’Italia, la festa di Sant’Egidio era un avvenimento che univa tutti gli ortani, di qualsiasi fazione.

Nel numero 5 del primo anno di pubblicazione un articolo riporta tradizioni e detti che oggi sono scomparsi, l’autore del pezzo è Alessandro Camilli, storico e cultore ortano. Leggiamo quanto scrive dopo un preambolo sul culto di Sant’Egidio ad Orte: “A proposito della diffusione del culto di Sant’Egidio anche nei paesi e città vicine ci piace ricordare un fatto che la tradizione ci ha tramandato attraverso un detto popolare. Si racconta che un tale di Amelia fosse afflitto da grave infermità senza alcuna speranza di guarigione. Molto devoto di Sant’Egidio aveva più volte pregato un suo amico di Orte che si recava spesso in Amelia per la vendita degli ortaggi, affinché gli avesse portato una qualche reliquia del Santo.

L’amico aveva però sempre mancato di soddisfare il desiderio del malato, adducendo or l’una or l’altra scusa. Un giorno, mentre il buon ortolano attraversava il Tevere con la barca per recarsi nuovamente in Amelia (l’antico ponte era distrutto) si rammentò della promessa: ma ormai come fare? E, d’altra parte, quale altra scusa avrebbe potuto addurre al malato che con tanta ansia e fede attendeva?

Fors’anche un po’ scettico nella speranza del 142 sofferente, ebbe un’idea: portargli un oggetto qualunque e presentarlo come una reliquia. Tagliò col coltello un pezzettino di legno della barca e, giunto in Amelia, lo portò subito all’amico al quale disse di aver quello tolto dall’altare di Sant’Egidio. Inutile dire con quanta devozione il malato accolse la piccola scheggia di legno e con quanto fervore rinnovò le sue preghiere al Santo. Breve: Dopo pochi giorni ottenne la sospirata guarigione. Il fatto è ancor oggi ricordato dal detto popolare – Non il legno della barca, ma è la fede che ti salva -.

Abbiamo accennato che la festa di Sant’Egidio è stata sempre celebrata con grande solennità. Durante la processione religiosa, avevano luogo nelle principali piazze dove la processione sostava, sacre rappresentazioni rievocanti scene dell’Antico e Nuovo Testamento. Tali rappresentazioni ebbero luogo fin verso la metà del secolo XVIII°.

Vennero infatti proibite dal Vescovo Sante Lannucci forse perché avevano perduto il vero carattere sacro e degeneravano spesso nel profano sì da essere più di danno che di edificazione per i fedeli.


In occasione della festa del 1586 il concittadino Giulio Roscio, sacerdote e distinto letterario che risiedeva a Roma, inviò ad Orte un gran numero di immagini di Sant’Egidio recanti una sua bella dedica in latino, uscite evidentemente dalle stampe del Manuzio del quale il Roscio era molto amico.

La distribuzione di quelle immagini, allora una vera novità – deve aver rappresentato certamente in quell’anno uno dei primi numeri del programma dei festeggiamenti.” Il Camilli elenca poi quali fossero questi festeggiamenti di cui abbiamo già detto nelle pagine precedenti, ma in conclusione ne cita uno veramente originale.

“Ne va dimenticata l’allegra e gustosa fiera dei cocomeri, che i nostri bravi ortolani organizzavano fino a non molti anni fa in Piazza d’Erba”. Prendendo spunto da questa testimonianza e da quanto affermato in precedenza su come le strade di Orte erano vive e addobbate per la Fiera dei Campanelli, le nostre ricerche ci svelano che l’intero centro storico era organizzato per settori e generi nelle esposizioni dei mercanti.

In occasione della visita compiuta dal Delegato Apostolico nel 1864 per la festa patronale vengono emanate precise disposizioni. “Si cura pertanto l’Ornato e la Decenza del Paese e si mette un poco di ordine anche nella vendita di merci.

Si stabilisce pertanto quanto appresso: in Piazza delle Erbe vendita di cocomeri, erbaggi, frutti, uva, insalata, cipolle, pomodori, fichi, prugne e simili; in Piazza del Serraglio (l’attuale piazza del Plebiscito) vendita di mercerie, accessori di bigiotteria, orerie, coralli, pannina, vestiario; in Piazza del Seminario Vecchio (oggi via Cavour) vasellame, vetri, botti, bigonzi e barili; in Piazza Troja porchetta, polli, uova, nocciole, pane, pepe, erbe e sementi; in Piazza Colonna bigonzi, scale, ferri, metalli, scarpe, cappelli, ferraglia e canestri.


I bottegai che hanno stabili locali non possono esporre le proprie merci ingombrando le strade. La Piazza del Duomo deve essere sgombrata da qualsiasi cosa 143 per comodo di passaggio, e trattenimento piacevole, per rispetto alle Sacre Funzioni, alla tombola e al concerto.” Un’altra testimonianza di quanto Sant’Egidio fosse amato, è il caso di dirlo, e
venerato dagli ortani la raccogliamo da una pubblicazione del 1981 di Giulio Nasetti, “Frammenti di vita ortana dell’800”. In quelle ricche pagine, che rappresentano una raccolta di piccoli eventi e notizie che delineano tratti non secondari della vita di quei tempi, leggiamo che “la Contessa Caterina Castelli Alberti protestando una particolare devozione verso il Santo Glorioso San Egidio Abbate principale patrono di Orte, rilascia in puro, vero e sincero dono al Santo sullodato, due vacche con allevime maschio ed altra con lo stesso allevime maschio.

Per dodici anni dal primo Settembre 1804 non sia libertà di alcuno di alienare non solo le dette bestie, ma neanche i loro allevimi. Li suddetti allevimi maschi si debbono alienare per rinvestirsi in femmine e mercate con il merco del Santo. La rendita deve andare per la festa del Santo” (Rendita della Cappella di Sant’Egidio). In tempi più recenti, fino alla metà degli anni 70 del secolo passato, S. Egidio veniva onorato con due usanze popolari oggi scomparse.

La prima vedeva un fragoroso scoppio di “mortaretti” all’uscita e al rientro della processione. Le cariche esplosive, fatte rigorosamente in modo artigianale, erano posizionate sui passamani della fontana di piazza e venivano accese da un lato quando Sant’Egidio compariva sul sagrato della chiesa, e dall’altra parte quando la statua del Santo rientrava al termine della processione.Subito dopo avveniva il lancio di tre palloni aerostatici realizzati da “Pompici”. Il lancio dei palloni aveva una procedura del tutto particolare ed erano realizzati dallo stesso Pompici con carta velina incollata e nastrata dove alla base era legato un fil di ferro circolare con al centro uno stoppino.

Nel bel mezzo del pallone era scritto in grandi caratteri “W Santo Egidio”. Prima di accendere lo stoppino l’estremità del pallone era tirata da un’altra persona che si trovava nella finestra che anticamente era l’ingresso del Comune, proprio difronte alla fontana di piazza. Questo per evitare che la carta velina prendesse fuoco.

Il pallone, che aveva una altezza di 2,5, 3 metri, si gonfiava lentamente e quando l’aria calda aveva riempito la sfera, veniva portato da Pompici, con la sua camminata incerta, al centro della piazza e lasciato tra gli applausi degli ortani.